Un “giudizio cattolico” sulle recenti elezioni amministrative
La fede deve sempre trasformarsi in “giudizio” su ciò che avviene. Ecco dunque la necessità di fare alcune riflessioni “cattoliche” sull’ultima tornata elettorale. Per la serie che è nostro dovere formarci non solo affinché si possa capire meglio ciò che sta accadendo, ma anche per poter offrire al prossimo delle utili chiavi di lettura … mai dimenticando che tra le opere di carità vi sono quelle, importantissime, di misericordia spirituale: insegnare agli ignoranti, consigliare i dubbiosi, ecc…
Offro due prospettive di lettura dei ballottaggi che sono andati a completare quel “quadro” che in un certo modo già si era chiaramente espresso al primo turno del 5 giugno. La prima riguarda la “politica del contesto”, la seconda la “politica in quanto politica”.
La politica del contesto
A livello di “politica del contesto” i verdetti dei ballottaggi sono chiari. Vince il Movimento 5 Stelle e perdono tutti gli altri. Sì: perdono tutti gli altri, anche quelli che pensano di essere usciti da questa tornata elettorale con le ossa non rotte o che s’illudono di poter godere delle sventure altrui, prima fra tutte del cosiddetto “PDR”, Partito Democratico di Renzi.
Perdono tutti perché, a differenza dei turni elettorali del passato, ove vi era un vincitore o dei vincitori e altri che “pareggiavano” o perdevano, qui trionfa un partito che non vuole essere un “partito” e una politica che non vuole essere “politica” nel senso tradizionale e formale del termine.
Dunque, vittoria del M5S da una parte e astensionismo, che percentualmente si conferma essere il “primo partito”, dall’altra. Insomma: trionfo dell’anti-politica e dell’anti-partitismo.
La politica in quanto politica
Al cattolico la “politica del contesto” non dovrebbe interessare più di tanto, bensì dovrebbe saper guardare più in là. E infatti se guardiamo oltre, il discorso si fa più complesso, più interessante e apre a considerazioni tanto negative quanto positive.
Iniziamo da queste ultime, cioè quelle positive.
Esse di fatto si riassumono in una sola: sonora sconfitta del governo in carica. Più precisamente: sonora sconfitta della sua politica.
Il governo ha tentato finora di operare su due versanti: “innovazione” sul piano interno e “conservazione” su quello internazionale.
Da una parte, sul piano interno, presentandosi come un governo capace finalmente di “innovare” e poter dire “basta” a meccanismi farraginosi di un certo sistema costituzionale (vedi la Riforma su cui si andrà a votare nell’ottobre prossimo); dall’altra, sul piano internazionale, ubbidendo a certi diktat dei poteri forti.
Diktat geopolitici: gli USA vogliono le sanzioni alla Russia e il Governo Renzi ubbidisce (causando danni immani all’imprenditoria italiana); gli USA impongono un consolidamento della politica anti-Assad e il Governo Renzi ubbidisce (vedi certe dichiarazioni della Mogherini a riguardo).
Ma anche diktat relativi ai costumi: i poteri forti impongono l’ideologia gender e il Governo Renzi ubbidisce inserendo surrettiziamente tale ideologia nelle scuole; i poteri forti vogliono la dissoluzione del matrimonio e il Governo Renzi passa alla storia d’Italia come il primo governo che sdogana giuridicamente la pratica sodomitica dando anche ampie garanzie, attraverso le creative sentenze dei giudici, all’adozione di bambini alle coppie gay.
Decisionismo in casa, sudditanza fuori. D’altronde è innegabile che questa è l’immagine che molti hanno di Renzi: sicurezza “leaderistica” in Italia e nel suo partito, pavidità rinunciataria in campo internazionale.
E dunque –cattolicamente- la sconfitta del Governo Renzi e della sua politica non può che essere salutata con piacere.
Ma veniamo alle conseguenze negative di questa tornata elettorale.
Prima di tutto va detto che la batosta che ha subìto il governo è l’esito di varie congiunture, di cui ovviamente si è servita la Provvidenza per castigare chi era giusto che fosse castigato, ma non di una consapevolezza e di buone scelte dell’elettorato cattolico. D’altronde in Italia non è mai esistito un elettorato di buone idee e inequivocabilmente cattolico… ciò soprattutto a causa del protagonismo del “cattolicesimo democratico”, traduzione politica del modernismo teologico, anima della potentissima Democrazia Cristiana.
Vengo al dunque. Nei risvolti negativi di questa tornata elettorale ci sono due punti da evidenziare: il trionfo della cosiddetta “anti-politica” e il trionfo della cosiddetta “questione morale”.
Iniziamo con l’ “anti-politica”. Il suo successo ha in sé una fase “destruens” ma anche “costruens”, ovvero la realizzazione di modelli “a-ideologici” che sono pericolosissimi. Si tenga presente che un conto è essere “contro-ideologici”, altro è essere “a-ideologici”. Combattere le ideologie non solo è cattolicamente giusto ma è anche doveroso, perché l’ “ideologia” nasce come “forzatura” rivoluzionaria del reale, come pretesa di non riconoscere un modello sociale naturale che è dato, bensì di “inventare” modelli sociali a seconda di singole istanze di pensiero e rivoluzionarie. Altra cosa è la posizione “a-ideologica”, che invece muove dalla convinzione che ciò che conta è solo la prassi, che le battaglie ideali tutto sommato non servano, perché ciò che è decisivo sarebbe solo la salvaguardia delle tante piccole utilità sociali: il buon funzionamento dei meccanismi del corpo sociale. Ovviamente cadendo nella contraddizione (ma è la tipica contraddizione dell’errore) che già teorizzare la morte dell’ideologie è fare ideologia e che rifiutare le grandi battaglie ideali in nome del rispetto di piccole utilità permeate dal collante del dovere di essere onesti, è già una sorta di battaglia ideale… ma lasciamo perdere.
E vengo al secondo punto negativo di questa tornata elettorale: l’imporsi ancor di più della questione morale, ovvero del dovere di essere onesti.
E qui –cattolicamente- dobbiamo fare un “ripasso” importante, perché stiamo tutti perdendo un po’ la bussola.
Ogni attività legittima che l’uomo è chiamato a compiere (quindi anche l’attività politica) può trovare la sua continua rigenerazione con la rigenerazione (chiedo scusa per il gioco di parole) dell’uomo stesso.
Ragioniamo. Se l’uomo non vive in sé la dimensione del limite, quindi la consapevolezza del peccato e il conseguente timore del giudizio di Dio, tutto diviene possibile…indipendentemente dal fatto che ci siano o meno i partiti e le loro potentissime segreterie.
Chiediamoci: che cosa fa sì che l’uomo riconosca la possibilità di donarsi, di servire e di sacrificarsi? La speranza che non tutto finisca nel qui e ora, che quello che si compie oggi troverà un compenso domani, che la vita che si conduce oggi è una preparazione di un’altra più piena e più vera. Se tutto questo non c’è, sarà anche possibile occasionalmente servire e sacrificarsi…ma, di certo, verrà meno la motivazione convincente e persuasiva tanto per servire quanto per sacrificarsi.
Diciamolo francamente: se la vita è solo questa, è meglio comandare che ubbidire, è meglio avere il potere piuttosto che non averlo. Ma se c’è un’altra vita che dipende dal giudizio che si riceverà da Dio, allora sì che si capovolge la prospettiva. Dice un antico detto monastico: ubbidire è meglio che comandare, perché ubbidendo si è certi di non sbagliare (ovviamente quando si ubbidisce non tradendo la legge di Dio).
Queste cose però non si capiscono e non le capiamo nemmeno più noi cattolici che avremmo invece il dovere di non dimenticarle mai. Basterebbe protestare per risolvere i problemi della corruzione politica? Quando qualcuno propone di abbattere i partiti, di cambiare completamente la classe politica, come fa ad essere sicuro che i politici nuovi saranno necessariamente migliori dei vecchi? L’errore è sempre il solito: quello di credere che basti cambiare qualcosa dal punto di vista tecnico per avere brave persone. E’ l’errore delle utopie, le quali, appunto, non vogliono capire che il vero rinnovamento deve prima di tutto avvenire nel cuore di ogni singolo uomo.
Una cattiva storiografia ci ha quasi sempre presentato gli uomini di governo del passato come sfruttatori senza pietà. Certamente di questi non ce ne sono stati pochi, ma non c’è un automatismo cronologico per cui, passando il tempo, la qualità dei governanti sarebbe migliorata. Se prendiamo i secoli del basso medioevo (meglio definirli della cristianità) ci rendiamo conto che il maggior numero degli uomini di governo che sono giunti agli onori degli altari è proprio di quei secoli; e non a caso, se è vero (come è vero) che il timor di Dio spinge inevitabilmente al servizio e al sacrificio. L’antico uso dell’incoronazione dei Re per diritto divino aveva un grande valore pedagogico. Era come se il re dicesse ai suoi sudditi: vedete, io posso pretendere ubbidienza da voi perché anch’io mi faccio ubbidiente ad un altro Re! Proprio come deve fare un vero padre di famiglia: prima ancora di parlare, deve insegnare ai figli “come essere figli” e lo fa facendosi anch’egli figlio di un altro Padre. Senza la testimonianza, ogni sistema educativo è destinato a fallire.
A proposito del fatto che chi governa deve prima di tutto rispettare la propria umanità, nella consapevolezza del proprio limite e della propria piccolezza, Pedro de Ribadeneyra nel suo Il principe cristiano (scritto come “risposta” a Il Principe del Machiavelli) afferma: “(…) pur essendo un re, un uomo non cessa di essere uomo ed anzi è maggiormente obbligato ad impegnarsi in ciò che è proprio dell’uomo, tanto più rispetto agli altri suoi simili, quanto più partecipando all’eccellenza della natura umana…”
Conclusione
E allora che cosa sta accadendo? Che si sta sempre più istaurando –anche per la responsabilità di noi cattolici- il dominio della tecnocrazia. Nella Caritas in Veritate, al n.70, Benedetto XVI così definisce la tecnocrazia: “…la tecnica divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un ‘a priori’ dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità.” Soffermiamoci sulle parole: “… un ‘a priori’ dal quale (la realtà) non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità.” E’ infatti questa l’essenza dell’ideologia la quale nasce, si sviluppa e trova la sua ragion d’essere proprio nel rifiuto sistematico della realtà: dal dato dell’essere. Praticamente la tecnocrazia si concretizza con il potere esercitato sulla vita civile dei cosiddetti “tecnici” che pretendono di essere privi di radici filosofiche e indipendenti da ogni valutazione politica nel senso più ampio del termine. La tecnocrazia si basa su una precisa ideologia. Un’ideologia della morte delle ideologie che presuppone la sostituzione della verità filosofiche e politiche con assiomi delle scienze esatte e sperimentali.
La figura di riferimento della tecnocrazia, il suo vero leader è il manager, colui che si consacra totalmente all’applicazione delle regole e delle procedure amministrative.
La tecnocrazia è il primato dei mezzi sui fini. Esito logico di un tempo in cui il “Fine” (con la “F” maiuscola) è stato bandito dal nostro esistere. Anche a causa della nostra ignava complicità.